Il decorso terapeutico dei pazienti difficili
Lo scopo di una psicoterapia cognitiva del paziente difficile consiste in una fase iniziale nella rimozione dei sintomi che creano una inadeguatezza ed un malfunzionamento sociale del soggetto e che portano alla sua graduale estromissione dal tessuto sociale funzionante e ad un impoverimento della loro qualità di vita.
Questi obiettivi iniziali sono principalmente compromessi con i cosiddetti pazienti difficili, mi riferisco cioè ad alcune forme di schizofrenia in cui non c’è un’adeguata coscienza di malattia per cui il paziente non presenterà mai la giusta compliance oppure a molti dei disturbi di personalità, in cui è difficile porre un limite netto dei comportamenti anormali e, di conseguenza, non c’è la volontà di mettersi in discussione e di seguire un percorso armonioso che porti alla eliminazione dei comportamenti abnormi. Infatti, la psicoterapia si prefigge, in questi casi una modificazione dei comportamenti devianti, in modo da rendere il paziente meno vulnerabile all’impatto degli eventi stressogeni e, quindi, in grado di potere vivere la propria vita con un rischio minore di future reazioni psicopatologiche.
A volte è necessario aiutare quei pazienti, che esprimono fini poco realistici per la loro vita futura, a riformulare tali obiettivi e a porsi traguardi che, almeno in una prima fase, siano più a portata di mano. Occorre molta sensibilità e pazienza da parte del terapeuta per conquistare la fiducia del paziente e indurlo a riconsiderare le sue mete future: questo è un primo obiettivo importante al fine di non sovraccaricare quel senso di impotenza e la scarsa capacità che provano nel loro intimo, anche quando sembra che si propongano mete grandiose.
La risposta concreta da parte del terapeuta deve consistere nel fatto che il soggetto deve imparare a risolvere efficacemente le situazioni che incontra nella sua vita quotidiana e a sapere utilizzare in modo ottimale le opportunità che gli si offrono, ad esempio a favore della carriera, di un lavoro, di studi impegnativi, prima di prendere decisioni disadattive. Il focalizzare l’intervento terapeutico sulla strutturazione di competenze richiede che il terapeuta sia già arrivato ad una concettualizzazione del paziente e delle risorse che possiede e su cui bisogna costruire. Il paziente deve essere opportunamente preparato all’incontro da qualcuno nel quale ripone molta fiducia. E’ preferibile affrontare le problematiche che egli vive nel presente come minacciose, per poi muoversi verso quelle di maggiore rilievo, nel momento in cui il soggetto ha avuto già la possibilità di sviluppare competenze primarie e, quindi, sia stato in grado di imparare che i problemi hanno una soluzione che è accessibile anche a lui.
Nella relazione terapeuta/paziente grande rilevanza assume l’empatia che si instaura tra i due soggetti componenti del setting. L’empatia consiste nella capacità di potere momentaneamente fare propri i vissuti del paziente per coglierne perfettamente l’entità e la gravità. In questo modo si riesce a sviluppare una forma di conoscenza tacita, che si basa sull’essere riusciti a mettersi in sintonia con le emozioni provate da un altro soggetto. Comprendiamo naturalmente come l’empatia si riferisce alla capacità di saper cogliere la comunicazione emotiva dell’altro, anche quando essa non è espressa a parole. Safran e Segal hanno focalizzato gli aspetti interpersonali della relazione terapeuta/paziente in un setting psicoterapico cognitivo. Hanno suggerito che un terapeuta che prova delle emozioni di cui non sa rendersi conto immediatamente può interrompere il discorso condotto per fare presente al paziente il proprio stato d’animo e chiedere a lui in che misura esso corrisponda a quello che l’altro prova in quel momento. Questa strategia terapeutica (Perris) è importante per evitare errori soprattutto quando una sensazione di irritazione provata dal terapeuta non è altro che il riflesso di ciò che sta sentendo il paziente. Chiarire la situazione in questi casi è di grande aiuto per il proseguimento efficace del contatto. E’ chiaro che il fine ultimo di ogni psicoterapia sia quello di rendere il soggetto meno vulnerabile identificando gli schemi disfunzionali del Sé e modificandoli affinché diventino più adattivi. Preparare agli alti e bassi della vita che non risparmiano nessuno è un buon mezzo per prevenire o mitigare l’impatto di delusioni minori a cui i soggetti con molta probabilità andranno incontro nel futuro. A volte è necessario aiutare i pazienti che esprimono fini poco realistici per la loro vita futura a riformulare dei traguardi che sono più a portata di mano. Un fine immediato, anche con soggetti non più tanto giovani, può essere quello di aiutarli a sviluppare quelle capacità sociali che sono necessarie per vivere una vita quanto più autonoma è possibile.
Bowlby ha sottolineato che il ruolo del terapeuta che aderisce ai concetti basali della teoria dell’attaccamento deve consistere nel saper creare una condizione di sicurezza per il paziente, affinché questi sia in grado di esplorare quali sono i modelli operativi che ha in effetti costruito nelle proprie relazioni con l’ambiente. Fornire una base sicura da cui si può muovere per esplorare gli aspetti più problematici della propria vita passata e presente con la consapevolezza che c’è una persona di cui si può fidare e alla quale può ritornare per sostegno e conforto se ne avesse bisogno è fondamentale. Scopo del terapeuta è aiutare il paziente a diventare disinvolto e più tollerante innanzi alle frustrazioni che non potranno mai essere evitate nella vita. L’esplorazione di questi soggetti è tutt’altro che facile, spesso risveglia dubbi, riattiva dolori di esperienze vissute o paura di ripeterle in modo ancora più grave. Per controbilanciare tali aspetti il terapeuta deve essere preparato ad essere continuamente empatico e flessibile nel suo atteggiamento così come il colloquio terapeutico deve essere mantenuto su un livello elementare. E’ in questo clima che il mirroring descritto da Kohut (1971) può aiutare il paziente a sviluppare un senso di sé positivo. La comunicazione nel setting deve essere diretta e inequivocabile perché i pazienti gravi tollerano pochissimo l’ambiguità e non bisogna scatenare situazioni di angoscia che potrebbero risultare penose. Aiutare il paziente a riflettere sui propri pensieri sicuramente lo aiuta a sviluppare il metapensiero in rapporto alle capacità cognitive che possiede. Da un punto di vista cognitivista possibili descrizioni disfunzionali che il paziente da di sè stesso devono essere messe in discussione, perché è in questo modo che il soggetto può essere guidato a raggiungere progressivamente formule più funzionali.
Giacoma Cultrera
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