I Primati e il Mentalismo
Se l’uomo tende ad auto-organizzare secondo un ordine auto-referenziale la realtà esterna è doveroso porsi dei quesiti circa il tipo di animale che è, e quali priorità abbia dal momento che ha sviluppato un sistema conoscitivo complesso. L’origine evolutiva è fondamentale per comprendere chi siamo. Ad esempio, secondo W. Weimer il Sé è una conseguenza necessaria ed obbligatoria dei sistemi complessi che vanno oltre certi vincoli. Il Sé così come si è sviluppato rappresenta uno dei possibili modi di auto-rappresentazione del sistema.
Per aumentare la comprensione dell’uomo dobbiamo necessariamente ritornare ai primati!
L’emergenza evolutiva è nella maggior parte dei casi la risposta ad uno stato di necessità; tuttavia, non è prevedibile lo sviluppo che può avere ed è assolutamente casuale (Guidano V., 2019).
Il linguaggio probabilmente è sorto come una modalità di controllo delle dinamiche aggressive del gruppo e, quindi, con una funzione fondamentale di contenimento. È una sorta di equivalente del grooming (spidocchiamento). Nessuno avrebbe mai immaginato la funzione dominante ed evolutiva che avrebbe assunto nel cervello al punto da trasformare completamente non solo il mondo esterno, ma soprattutto quello interno, il senso di Sé e la coscienza individuale. In origine il linguaggio era sicuramente uno strumento contingente necessario! Quando le dinamiche del gruppo non poterono più essere controllate attraverso la tecnica del grooming: in quel momento sorse la necessità di emettere vocalizzi!
Tutto ciò ci porta a pensare che caso e necessità siano inestricabili: la stessa evoluzione umana è una casualità irripetibile. Questa possibilità si è verificata in modo del tutto accidentale ina una zona dell’Africa relativamente piccola, che va dalla Tanzania alla costa keniana del Mar Rosso: la Rift Valley. Infatti, per un fenomeno di tipo geologico, la valle si spaccò con una fenditura (rift), per cui la parte a oriente vicina al mare preservò la foresta, mentre quella più a occidente diventò tutta savana. Molte delle scimmie che si trovavano in quella valle fuggirono nella foresta come il gorilla, che ha sempre rifiutato la novità della savana e, di conseguenza, si ritirò sui monti che avevano conservato gli alberi. Il gorilla, infatti, che ha un mentalismo molto ridotto, non ha mai espresso gli aspetti delle altre scimmie che hanno sviluppato il bipedismo, cioè quella modalità posturale e di deambulazione che richiede l’ausilio delle braccia per mantenere la stazione eretta. Le scimmie, invece, che sono rimaste, adattandosi, all’ambiente della savana sono state costrette ad essere bipedi. Quindi, si pensa che il bipedismo, nel momento in cui ha cambiato la dinamica dei pesi sulla colonna vertebrale, ha reso libero il braccio sul quale sono state localizzate tutte quelle attività che erano svolte dalla faccia. In tal modo ha alleggerito il carico facciale e ha favorito lo sviluppo della volta cranica.
Un aspetto ulteriore di questa interpretazione è la concezione dell’evoluzione come “equilibri puntuati”, come affermano Elredge e Gould (1972): una specie può anche essere statica dal punto di vista morfogenetico, per molte migliaia di anni, e, invece, i cambiamenti sono di tipo quantico cioè a gradino, non sono graduali, bensì avvengono a salti. Questa è la concezione sempre più accreditata del pluralismo evolutivo (genetica post-darwiniana) sostenuto da Waddington (1942), teorico dell’epigenesi, e Gould (1989). Quindi tutti gli aspetti evolutivi sono a scatti e allo stesso modo quello individuale.
Noi umani apparteniamo alla classe dei mammiferi, più precisamente all’ordine dei primati. Nei primati sono inclusi lo scimpanzè, l’orangotango, il gorilla e gli umani. Il nostro DNA è simile a quello degli scimpanzè al 98,9%, praticamente è la stessa specie, non una di derivazione. I mammiferi sono un gruppo particolare di primati, perché presentano una novità emergente: vivono in un mondo intersoggettivo! Infatti, vivono in branchi che possono variare da 30/50 sino a 300 individui come nel caso dei babbuini, ma si tratta sempre di piccoli branchi, in cui si registra una coordinazione comportamentale reciproca, consensuale e continuativa. L’unica possibilità di sopravvivenza fisica per i primati, così come per gli umani, era muoversi in un gruppo coordinato nella fuga, nella ricerca di un rifugio, nel cercare cibo.
I babbuini vivono in gruppi abbastanza numerosi di 100- 150 individui, ma hanno un ordinamento sociale e gerarchico rigoroso, si muovono all’unisono. Si tratta di una gerarchia di branco, che si manifesta anche nella monta delle femmine. Generalmente grazie a questo tipo di ordinamento interno riescono a vincere nella lotta secolare con il leopardo: si nascondono e gli sfuggono. Anche quando il felino riesce ad arrivare nel luogo dove i babbuini sono accampati è molto difficile che riesca ad entrare nel branco, perché viene affrontato da due maschi: il numero 1 e il numero 2. Questi vanno incontro a morte sicura, ma lo fanno secondo un’organizzazione coordinata.
Questi animali sviluppano un pensiero relazionale basato sul mondo fisico dello spazio e delle quantità, ma non dei ruoli sociali. In base agli studi di Tarttersall (2012) e Cheney e Seyfarth (2007) si è visto, osservando i babbuini che per potere gestire il rapporto con i conspecifici nelle interazioni di gruppo devono avere chiaro un qualche senso di individualità. È significativo che questa consapevolezza sia fondamentalmente intersoggettiva e che partendo da una qualche individualità rimane principalmente consapevolezza “sociale”. La consapevolezza riguarda la propria posizione nel gruppo, non una vera consapevolezza di sé. Ciò tenderebbe a dimostrare che il senso del Sé venga prima filogeneticamente di un senso di sé personale connesso con l’“individuazione”.
In quel tempo la sopravvivenza diventò sempre meno una questione di pura sopravvivenza fisica! Per avere tutto ciò che serviva per la sopravvivenza fisica era necessario possedere una buona coordinazione consensuale, quindi, tutto un repertorio di apprendimento che derivava dai rapporti interpersonali: questa fu la grande proprietà emergente dei primati.
Seguendo sempre l’approccio dell’epistemologia evolutiva si osserva che nei primati si assiste ad un nuovo ordinamento dell’esperienza tale che, come affermano Povinelli e Prince (1988), da allora è stato possibile distinguere due gruppi di esseri viventi in base al tipo di vita che fanno: quelli che conoscono l’esistenza di stati mentali (i primati) e gli altri animali che non possiedono tale conoscenza.
Povinelli, nella sua teoria sulle capacità dell’orango, afferma che non tutto il potenziale mentalistico sia stato utilizzato, perché la specie è ritornata in una “nicchia” ambientale in cui questo non era necessario.
Questo è proprio uno degli aspetti interessanti dell’evoluzione, che mostra come lo sviluppo di mentalismo sia avvenuto solo nei primati: tutti, infatti, hanno avuto a disposizione, perché inerente alla loro struttura intersoggettiva, la capacità di operazioni mentalistiche, ma non tutti l’hanno sviluppata. Quelli che si sono ritirati nell’ambiente boschivo originario, come i gorilla, laddove non erano richieste quelle capacità, le hanno perse. Coloro, invece, che si sono “savanizzati” sono quelli che le hanno sviluppate di più.
I più simili agli umani sono gli orangotanghi. Questi animali sono quelli che hanno maggiori capacità di riconoscimento allo specchio, impiegano la metà del tempo che serve allo scimpanzè, che ha bisogno di 7 giorni di esposizione per impararlo, quando l’orango ne impiega due. Gli oranghi sono anche quelli che hanno un tipo di coscienza che è più orientata verso l’obiettivo.
L’orango ha accettato la savana, non si è rifugiato nelle foreste come il gorilla, però non si è completamente savanizzato come lo scimpanzè. Nella savana l’orango, la scimmia arboricola più grande del mondo, è rimasto sugli alberelli, ma questo ha causato un grave problema, perché gli alberi della savana erano piccoli a differenza di quelli della foresta, per cui essendo questa una condizione innaturale di equilibrio per l’orango; esso è stato costretto dalle condizioni ambientali ad un monitoraggio di coscienza costante. Data la posizione di forte visibilità a cui era esposto ed allo stesso tempo la maggiore possibilità di vedere di cui disponeva esso doveva soppesare continuamente il punto in cui si trovava.
Questo, quindi, secondo Povinelli può essere uno dei motivi per cui l’orango ha sviluppato una capacità di “coscienza presente”, favorita, in base a queste teorie, dal monitoraggio esasperato a cui è stato costretto e anche per la posizione assolutamente inedita in cui si è venuto a trovare.
Giacoma Cultrera
L’immagine di copertina è stata tratta da unsplash.